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Libero scambio: scontro Trump-Cina?

di Pietro Veglio

  • 7 dicembre 2016, 13:20
Libero scambio: scontro Trump-Cina?

Donald Trump

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Mercoledì 07 dicembre 2016 alle 12:20

Durante la campagna elettorale il Presidente-eletto Trump ha asserito che “l’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) ha permesso alla Cina di realizzare il maggiore furto di posti di lavoro nella storia ai danni degli Stati Uniti”. Secondo Trump il deficit americano di US$ 365 miliardi nel commercio con la Cina dipende da pratiche commerciali scorrette che hanno determinato la bancarotta di diverse aziende americane. Ignorando che il deficit è anche da attribuire alla forte propensione al consumo dei cittadini americani ben contenti di approfittare dei prezzi vantaggiosi del “made in China”.

Per Trump gli Stati Uniti stanno affrontando una guerra commerciale con la Cina e la stanno perdendo. Secondo il suo programma elettorale la Cina manipola il tasso di cambio per favorire l’export. Si prefigge quindi di denunciarla presso l’OMC e imporre dazi doganali del 45% sulle importazioni cinesi. Una misura di ritorsione per compensare presunti sussidi illegali all’export cinese, manipolazioni cambiarie e cyber-spionaggio industriale. Le misure unilaterali anti-importazioni contribuirebbero a ristabilire una più equa concorrenza e a rilanciare l’industria manifatturiera americana.

Qualora Trump dovesse effettivamente applicare dei dazi del 40% sulla totalità dei US$ 500 miliardi annui di importazioni cinesi, l’impatto sulla Cina sarebbe indubbio. Infatti se gli Stati Uniti assorbono solamente il 16% dell’export cinese, per la Cina il mercato americano è invece di importanza capitale. Le misure protezionistiche statunitensi incutono paura in quanto incentiverebbero la fuga di capitali cinesi verso l’estero.

Tuttavia la Cina è in grado di assorbire parzialmente il colpo e di controbattere pericolosamente. Per esempio, rinunciando all’acquisto di aeroplani Boeing e privilegiando invece gli Airbus europei. O boicottando l’assemblaggio e le vendite locali di automobili americane (la General Motors dal 2010 al 2014 ha venduto più autoveicoli in Cina che negli Stati Uniti) come di IPhone. Oppure riducendo le importazioni dagli States di soia e mais, colpendo le potenti lobbies agricole. Ma la Cina potrebbe anche adottare una strategia più aggressiva vietando alle imprese statunitensi di formare delle joint ventures attraverso partecipazioni al capitale azionario di imprese statali locali. O ancora limitando le esportazioni di minerali rari, essenziali per l’industria elettronica americana. Oppure non collaborando nella lotta all’utilizzo illegale di patenti, brevetti e diritti d’autore. Pechino potrebbe addirittura decidere di frenare i propri acquisti di buoni del Tesoro americani (ne ha già accumulati per US$ 1'200 miliardi, ovvero il 6% del debito estero statunitense) o perfino vendere un parte degli stessi sui mercati finanziari. Provocando il probabile aumento dei tassi d’interessi e la caduta delle quotazioni borsistiche e del dollaro.

La realtà è quindi più complessa di quanto immaginato da Trump. Anche perché potrà decidere l’introduzione di nuovi dazi solo fino al massimo del 15% e per 150 giorni. Dopo di che dovrà richiedere l’autorizzazione del Congresso. Pur disponendo il suo partito di una maggioranza parlamentare sarà difficile assicurarsi un numero sufficiente di voti. Perché le misure violerebbero le regole dell’OMC, con pesanti conseguenze per gli Stati Uniti. Intanto una telefonata di Trump con la leader di Taiwan ha già fatto infuriare la Cina.

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