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Il libero scambio non è moribondo

di Pietro Veglio

  • 7 febbraio 2018, 13:20
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Mercoledì 07 febbraio 2018 alle 12:20

Il protezionismo è in auge negli Stati Uniti, da parecchi decenni il leader incontestato del libero scambio e degli accordi multilaterali. L’amministrazione Trump gioca un ruolo chiave in questa evoluzione anche se non è la prima volta che gli Stati Uniti accusano di protezionismo i loro principali partner commerciali.

La retorica protezionista dà una visione distorta dell’impatto del libero scambio sull’economia americana. Gli Stati Uniti hanno beneficiato enormemente dello stesso e del ruolo del GATT e successivamente dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) nel promuovere negoziati multilaterali e fare rispettare le regole del gioco concordate. Certo, il multilateralismo tradizionale ha oggi vita dura perché è sempre più difficile raggiungere dei compromessi che tengano conto degli interessi contrapposti dei 164 membri dell’OMC. Inoltre le nuove sfide non concernono solo i dazi doganali, ma anche la salvaguardia della proprietà intellettuale e la giurisdizione dei tribunali internazionali chiamati a dirimere le divergenze fra Stati e imprese multinazionali. Comunque, qualora l’amministrazione Trump dovesse aumentare sistematicamente i dazi doganali alle importazioni provenienti da paesi asiatici o europei, arrischierebbe di scatenare misure di ritorsione e di ledere gli interessi delle imprese americane. Imprese che per rimanere competitive dipendono sempre più dalle forniture provenienti da catene di produzione all’estero.

Alcuni fatti recenti dimostrano che il libero scambio plurilaterale, limitato ad un numero ridotto di Paesi, non è per niente moribondo. E se gli Stati Uniti dovessero privilegiare gli accordi bilaterali e le misure protezioniste unilaterali potrebbero ritrovarsi in una situazione di isolamento. L’esempio eclatante è quello del nuovo Accordo di Partenariato Trans-Pacifico concluso recentemente fra undici Paesi asiatici e latinoamericani: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru, Singapore e Vietnam. Gli stessi Paesi che nel 2016 negoziarono con l’amministrazione Obama un accordo che fu però respinto dal presidente Trump. Invece di rassegnarsi gli altri undici Paesi, spinti da un Giappone desideroso di definire nuove regole per il continente asiatico, hanno concluso un nuovo accordo, simile all’anteriore, che verrà firmato il prossimo marzo. Il nuovo accordo avrà un impatto economico minore del precedente perché gli Stati Uniti contano per i 2/3 del PIL collettivo dei dodici Paesi. Ma amplificherà sostanzialmente i flussi commerciali e di investimento nell’ampia area del Pacifico. Impatto suscettibile di aumentare ulteriormente qualora altri Paesi - come Corea del Sud, Indonesia, Filippine e Regno Unito – decidessero di firmarlo.

Nel frattempo Trump sembrerebbe disposto a rivedere la sua posizione. Anche perché il Giappone ha firmato a metà 2017 un accordo con l’Unione Europea che a sua volta sta negoziando con il Mercosur, ovvero Argentina e Brasile. Quanto alle nazioni del Sudest asiatico sono intenzionate a negoziare un accordo di libero scambio che includerebbe Cina ed India. E parecchie imprese americane hanno già manifestato la loro seria preoccupazione.

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